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Michele Ammendola: la concretezza di un visionario

Riceviamo e volentieri diffondiamo il ricordo pubblicato ieri su https://cantierebologna.com/2022/01/15/michele-ammendola-la-concretezza-di-un-visionario/

Come la sua pizzeria al Pilastro, sembrava che esistesse da sempre, un’illusione ottica creata da ingredienti giusti e un percorso lungo e combattuto. Trasformare, ne sa qualcosa Simone Spataro, una Casa del Popolo languente in un locale arioso dove sfornare piatti di qualità col lavoro di persone fragili e materie strappate alle mafie, o prodotte da detenuti, non era facile. Ma è una partita vinta dalla Cooperativa La Formica. Gente che, come lui, non si è mai seduta

di Beppe Ramina, pilastrino e giornalista


Michele e la pizzeria Masaniello – ora Porta Pazienza – al Pilastro e a Bologna ci sono da sempre. Anzi, no, non è vero, è un’illusione ottica creata da una serie di ingredienti che hanno fatto sì che Michele Ammendola e il suo progetto di pizzeria sociale siano arrivati nel posto giusto e al momento giusto, così da fare sembrare che siano sempre stati lì.

In realtà il percorso è stato lungo e si è affermato tra piccole e grandi resistenze: ne sa qualcosa il presidente del circolo Arci la Fattoria, Simone Spataro. Non è stata impresa facile trasformare una Casa del Popolo tradizionale, con i tavoli occupati da soci dediti al tressette e che stava languendo, in un locale arioso, curato, dove lavorano persone fragili e si sfornano pizze di grande qualità, che usa arredi sottratti a un ristorante della ‘ndrangheta e prodotti provenienti dalle terre sequestrate alla criminalità organizzata o dal lavoro dei detenuti nel carcere della Dozza, che promuove incontri, dibattiti, feste, socialità. Non era facile, ma lo hanno fatto.

L’ostinazione di Simone, che ha un bel carattere deciso, la determinazione e la visionarietà di Michele e delle ragazze e dei ragazzi della cooperativa la Formica hanno avuto partita vinta. Di gente che è o si sente visionaria è pieno il mondo, ma Michele aveva qualcosa di più: quelle visioni le rendeva concrete, sapeva coinvolgere, creava reti e si tirava su le maniche.

Non ho ricordi di Michele seduto. Quando ho saputo che era morto, colpito da un infarto, mi è tornata in mente quella che forse è stata l’ultima volta che ci eravamo incontrati, al magazzino di Piazza Grande in via Stalingrado dove aveva portato le sue pizze per un intrattenimento della sera. Giornata calda, forse caldissima. Ho pensato: tutto quel muoversi, tutto quel lavorare, non gli hanno fatto bene. Avrebbe dovuto riposare di più, avere cura di sé. Ma lui non era così.

Ogni persona ha una propria natura. Quella di Michele lo induceva a creare relazioni tra mondi anche tra loro lontani, a misurarsi (e a misurarci) con traguardi sempre nuovi. Con Michele ci si sentiva a proprio agio perché aveva quel dono particolare di fare sentire prezioso e unico l’interlocutore del momento: in un’epoca in cui siamo travolti dai selfie e dai selfisti, Michele rivolgeva il proprio sguardo all’altro, all’altra.

Quando un amico mi ha chiesto da quanto tempo lo conoscessi non ho saputo rispondere, ma avrei dovuto dire: da sempre.

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