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I racconti di Licia – Gina Carla

   

Mia sorella entra nella mia vita con prepotenza, io non la voglio ma mamma, in un giorno di fine aprile, si presenta sull’uscio di casa con un fagottino azzurro e me la impone. Bimba che non solo prende il mio posto nel lettone grande, ma mi porta via la mia meravigliosa poppata, che rimpiangerò per tutta la vita. Così, di punto in bianco, vengo catapultata in un piccolo letto con le sponde e, mentre lei dorme beata attaccata al seno di mamma, io ho i miei primi terribili incubi notturni, da cui non posso fuggire. Incubi certamente facilitati da una terribile caricatura del pugile Carnera, che mio padre ha avuto la brillante idea di appendere, proprio davanti al mio lettino. Il suo nome all’anagrafe è Gina, in ricordo di un cugino di mamma, morto prematuramente. Nome che nessuno dei fratelli e nemmeno lei conosce, perché viene chiamata da subito e per sempre Carla.  Lo imparerà in prima elementare quando, non rispondendo presente all’appello della maestra, si beccherà una pacca sulla testa.

Questa mia sorellina, se dapprima mi ha deprivato della posizione privilegiata di ultima nata, è arrivata a togliermi anche la libertà. La mamma ritiene che, essendo io più grande, devo farmi carico di quel fardello così ingombrante. L’ho sempre fra i piedi e, più spesso, l’abbandono qua e là per liberarmi un po’ di quella fastidiosa presenza.

Mentre scrivo, mi sembra di avvertirlo quel delizioso profumo di tigli e quella carezza del vento tra i capelli, di quei pomeriggi sedute a giocare, nella rotonda dietro casa. Per ogni marachella che combino, la responsabilità viene equamente divisa a metà, per il suo grande cuore. Non riesco a fare a meno di sorridere, pensando ai piccoli disastri che combiniamo, alle bugie per non essere sgridate, ai segreti solo nostri. Lei è l’unica che conosce ogni mio pregio e ogni mio difetto.  Adoro la sua risata accattivante e così rassicurante. Come siamo unite! Ogni mio pensiero è il suo, ogni suo gesto il mio. Noi, le due facce della stessa medaglia, legate da quel sottile filo rosso, che ci ha tessuto intorno al cuore, la mamma. 

Nel nostro piccolo universo, che ci sembra immenso, ma che non ci porta oltre i trenta chilometri di distanza, stiamo diventando grandi. Insieme alle risate cristalline dei nostri primi figli e ai pomeriggi, passati in montagna distese al sole, con i secondi. Un’esistenza la nostra, tranquilla e serena. Nemmeno una piccola ambizione al di fuori del comune, né capacità intellettive esagerate! Ci basta il lavoro, per dare sicurezza e fiducia alla nostra famiglia. 

Poi siamo cresciute e, con noi, le distanze. Durante le nostre visite, fingiamo che va tutto bene. È diventato difficile ridere e condividere. Lei così riflessiva e matura, io così impulsiva ed egocentrica. La vita, che ci ha poi deluso, non ci ha sconfitte. Siamo state capaci di trasformare i nostri dolori e siamo state così brave, da ritrovarci unite come ai vecchi tempi. Abbiamo ricominciato a scambiarci i segreti e i vestiti e abbiamo trasformato i nostri momenti di tristezza, in allegria. Mille gli episodi, pochi ma significativi litigi conclusi con grandi abbracci. Diecimila le risate sgangherate. Ancora oggi ci sentiamo molto più che sorelle, siamo amiche e complici. Ci prendiamo simpaticamente in giro e, anche se non vogliamo ammetterlo, siamo sempre più simili. 

Quel filo rosso, con cui mamma ci ha legato a doppia mandata, non ci costringe più. Perché sappiamo sempre, una dell’altra, quando è il momento di allentarlo un po’ per prendere un po’ d’aria.

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